Questo brano è tratto dal testo “L’amore è rivoluzione” e costituisce una delle pagine più classiche del pensiero di Giaquinta sulla santità. Partendo dal confronto con due concezioni estreme di santità, entrambe limitate, il Servo di Dio trova nell’amore della Trinità la sorgente della santità dell’uomo, ma allo stesso tempo afferma che il santo non è colui che ha raggiunto la pienezza dell’amore, quanto piuttosto ogni uomo e ogni donna che “con la sincerità e la passione di cui è capace la sua anima cerca di camminare decisamente verso tale pienezza.”.
Chi è il santo?
La risposta popolare non ammette incertezze: è il prescelto da Dio. Il che è anche esatto se la cosa non sia intesa in senso discriminatorio e cioè come di colui che, predestinato fin dal suo primo nascere a compiere grandi cose per Dio e per i fratelli, ha, in un certo senso, assicurata, da sempre, la tessera di ingresso in quel modesto numero di creature riconosciute ufficialmente eroiche dalla Chiesa. […]
Non è facile, per la psicologia umana, saper rimanere nel giusto mezzo. Accanto, e in opposizione, alla figura del santo miracolista se ne è sviluppata un’altra, assai differente, più vicina a noi, anzi totalmente incarnata nella nostra mediocrità. […]
In questa ipotesi il santo sarebbe il comune cristiano della strada che, fedele ai suoi doveri religiosi, ha scoperto tutto il senso dei valori terreni ed umani e non avverte quindi l’urgenza di entrare nella regia via della S. Croce di cui parla l’Imitazione e tanto meno nelle incomprensibili «notti» così care ai mistici del 1600.
Tra queste due tesi, evidentemente antitetiche, si pone quella della posizione ascetica che segue, sostanzialmente, la traccia del grande Ignazio di Loyola.
La coscienza della nostra inclinazione al male deve darci la forza di combattere tali nostre tendenze, attraverso un controllo costante e sistematico che ci consenta di formare la volontà, eliminare gradualmente le imperfezioni e acquistare le virtù.
È santo colui che, avendo accettato tale piano di lavoro, di fatto cerca di attuarlo con tutto l’impegno possibile.
Questa terza concezione, quando venga arricchita dalla figura di Cristo che sia presente a noi come modello a cui ispirarsi, ci fa comprendere chi realmente sia il santo e quale significato abbia la vocazione universale alla santità.
Si è parlato della storia dell’amore, della dialettica del massimo e del realismo dell’amore di Cristo.
Tutti siamo chiamati a prendere sul serio tali principi e ad attuarli in noi: è, questa, una vocazione universale.
Ma prendere sul serio tale vocazione significa accettare le conseguenze pratiche della esigenza divina manifestata nel suo piano di amore, metterci anche noi sulla linea della dialettica del massimo, abbandonando il nostro minimismo spirituale, accettare la provocazione all’amore totale racchiusa nella realtà della croce di Cristo.
Dove conduce tale cammino?
Non certo nel contentarsi del minimo indispensabile per salvarsi dall’inferno o per vivere in grazia o per compiere i cosiddetti «doveri del buon cristiano».
L’amore è sguardo al Padre che ci ha amato fino al punto di non risparmiare il proprio figlio per noi (Rm 8, 32); è ascolto della Parola divina, Gesù Verbo Incarnato, il quale è venuto a rivelare il mistero ineffabile di un Padre che ci ama infinitamente e vuole la totalità del nostro amore; è docilità all’azione dello Spirito che, dentro di noi, implora verso l’alto e forma, come in Maria, le fattezze del divino e, fuori di noi, ci parla attraverso la rivelazione passata e il magistero attuale della gerarchia della Chiesa.
Quando tale amore non sia teoria ma incarnazione di vita noi lo chiamiamo santità e colui che ne è portatore è il santo.
Ma chi può autodefinirsi portatore di tale pienezza e quindi santo, e quale autorità ha, in terra, il potere di dare un tale giudizio nei confronti di chi non ha ancora varcato la soglia dell’eterno?
Nessuno e nessuna. Ciò significa che tutti viviamo nello stato di povertà congenita e con l’esperienza della nostra miseria ma, insieme, dobbiamo avere la volontà e il desiderio fattivo di lasciarci afferrare dall’amore trascinante di Cristo verso la pienezza dell’incontro con il Padre.
Cogliamo qui il punto cruciale della nostra santità umana.
Siamo delle povere creature ‑ S. Paolo direbbe, vasi di argilla (2Cor 4, 7) ‑ che attratti dalla voce del Padre (S. Ignazio scriveva: «L’acqua viva mormora dentro di me e mi dice “vieni al Padre”», Rom. VII) ci sforziamo con sincerità e umiltà di camminare verso di Lui con la totalità del nostro essere.
Totalità: e qui ritorna il precetto del Vecchio e del Nuovo Testamento: con tutto il cuore, lo spirito, l’anima, le forze.
Del nostro essere: e cioè di noi stessi; che è quanto dire: anima e corpo; individuo, collettività e società; spirituale e materiale; pensiero, sentimento, volontà; tempo ed eternità.
Siamo coinvolti in ogni nostra parte e in ogni nostro momento in questa tensione verso la pienezza dell’amore che il Padre ci ha mostrato nel Figlio. Ed è quindi logico che anche i comuni termini di dovere, peccato, sanzioni e cose del genere, pur conservando la loro oggettiva verità, siano superati da chi ha scelto altre mete e altre misure.
E questo non perché si abbia la certezza di essere arrivati, giacché S. Paolo è esplicito nel suo ammonimento: chi sta in piedi si guardi con attenzione, perché potrebbe cadere (1Cor 10, 12); ma perché l’esigenza dell’amore, apparsa a noi nella tragica realtà di un Cristo crocifisso per amore, non ci consente di «misurare» una risposta di amore ad un amore datoci senza misura.
Chi è santo?
Nessuno, perché nessuno può dire di essere arrivato alla pienezza della corrispondenza dell’amore.
Chi è il santo?
Ogni uomo che con la sincerità e la passione di cui è capace la sua anima cerca di camminare decisamente verso tale pienezza.
Il santo allora è un uomo non completo che aspira alla completezza; l’affamato di un amore che egli possiede già, ma solo parzialmente; una creatura bisognosa dei fratelli a cui cerca di dare non il superfluo della sua abbondanza ma tutto ciò che gli è possibile; un uomo immerso nell’oggi ma che guardando l’eterno cerca di anticiparlo, secondo le sue possibilità, nel tempo che egli vive.
Egli è l’uomo di Dio, di cui sente sempre più prepotente il bisogno; è l’uomo degli uomini che sente appassionatamente suoi fratelli.
Il santo è il capolavoro di Dio e degli uomini; colui di cui ha bisogno Dio e che, insieme, esprime l’ideale degli uomini.
Il santo è il luogo dove s’incontra il divino e l’umano; è la continuazione nel tempo dell’amore redentivo e cioè del Verbo che si è fatto carne per inserirci nel suo processo di amore.
È per questo che solo Gesù, uomo‑Dio, è il vero santo. Ma dopo di Lui e nella sua forza, tutti devono camminare verso l’amore del Padre e sono quindi chiamati alla santità.
(da L’amore è rivoluzione, 87-92)